Rassegna stampa "C'era una volta a New York", recensioni da stampa e web dell'american dream di James Gray.
Drammatico - Usa 2013
di James Gray con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner, Dagmara Dominczyk
1921.
Alla ricerca di un nuovo inizio e rincorrendo il sogno Americano,
Ewa Cybulski e sua sorella lasciano la natia Polonia e navigano verso
New York. Quando raggiungono Ellis Island i medici scoprono che Magda si
è ammalata e le due donne vengono separate. Ewa si ritrova nelle
pericolose strade di Manhattan, mentre sua sorella è messa in
quarantena. Sola, senza un posto dove andare e nel disperato tentativo
di ricongiungersi con Magda, Ewa diventa presto preda di Bruno un uomo
affascinante ma malvagio che la prende con sé e la spinge a
prostituirsi. L'arrivo di Orlando ardito illusionista e cugino di
Bruno, le ridonano fiducia e la speranza per un futuro migliore, ma non
ha tenuto conto della gelosia di Bruno...
Un melodramma austero e classicheggiante che non è assurdo paragonare alle Due orfanelle di Griffith. Anche Marion Cotillard vi è fotografata (grande lavoro in ocra del capo-operatore Darius Khondji) come una diva del cinema muto, donna pia vittima del vizio che pare contornata da un alone di luce glorificante. Piuttosto controcorrente rispetto alle mode cinematografiche, d’accordo: ma il film importante di un regista che il tempo provvederà a risarcire.
Roberto Nepoti su La Repubblica
Manuale di melò, non manca nulla, gli attori soffrono (migliore Jeremy Renner, Phoenix e la lacrimante Cotillard) ma rimane tutto elegante, patinato ma senza pathos.
Maurizio Porro su Il Corriere della Sera
Gray ha cucito il film addosso alla divina Cotillard (Ewa). Attori eccellenti, regia elegante. Chi ama il classico apprezzerà, non poco.
Francesco Alò su Il Messaggero
Elegante e gelido dramma in costume attorno a una triste storia d’immigrazione (…) La malinconica Marion Cottilard batte un record: fa l’antico mestiere senza mostrare neppure una caviglia.
Massimo Bertarelli su Il Giornale
Sempre notevole tecnicamente, la regia di Gray questa volta fallisce nel trovare le sfumature giuste per dare a un copione non eccezionale il necessario spessore emotivo, riducendo il film a un drammone ponderoso, ripetitivo e piuttosto noioso le cui pietre angolari sembrano essere le scene studiate a puntino per far sgranare gli occhioni a Marion Cotillard, regalarle un monologo, far sfogare l’istrionismo dolente di Joaquin Phoenix.
Federico Gironi su comingsoon.it
Vengono a mancare gli aspetti più importante per un (melo)dramma: il coinvolgimento emotivo, la tensione narrativa, la profondità della caratterizzazione dei personaggi; viene a mancare insomma quell'anima che inevitabilmente differenzia un buon film da un capolavoro.
Luca Liguori su movieplayer.it
"C'era una volta a New York" (titolo originale più consono: "The Immigrant"), rivela una mano registica che ha saputo ben calibrare il concetto di classicismo, restituendo un cinema contemporaneo, nuovo, del tutto moderno.
Rosalinda Gaudiano su cinema4stelle.it
Immerso nella luce gialla e polverosa ricreata da Darius Khondji e accompagnato dalle noti dolenti di Chris Spelman, C’era una volta a New York non possiede però la forza espressiva dei precedenti lavori di Gray, imbrigliato da troppe suggestioni (immigrazione, prostituzione, artificio, sacro) e inibito da una sceneggiatura fiacca. Quel poco di calore lo si deve a Phoenix e alla Cotillard, vivi nonostante tutto. Liberi nella riconciliazione, prenderanno finalmente la propria strada. Lasciandosi dietro un solo rimpianto: il film.
Gianluca Arnone su cinematografo.it
Peccando forse di generosità o di mancanza di senso del limite, il melodramma di Gray nella seconda metà si fa eccessivo, quasi pomposo nella sua esasperazione. Ma ciò non diminuisce la bellezza di quello che vedrete sullo schermo, dalla passione e l'amore con cui viene dipinta la New York degli anni 20 alle consuete scene d'azione improvvisa cui questo giovane regista ci ha già abituato per la consueta maestria.
Giancarlo Usai su ondacinema.it
Alla fine però il film resta intrappolato nella sua volontà di mettere in scena un percorso di catarsi, una strada verso la purificazione di una donna, ma anche di un uomo che da vessatore diviene salvatore, e il tentativo di usare la classica forma del melodramma per arrivare a comunicare un messaggio di speranza si perde nel lento scorrere delle lacrime sul viso della sua protagonista.
Elena Bartoni su voto10.it
Un melodramma austero e classicheggiante che non è assurdo paragonare alle Due orfanelle di Griffith. Anche Marion Cotillard vi è fotografata (grande lavoro in ocra del capo-operatore Darius Khondji) come una diva del cinema muto, donna pia vittima del vizio che pare contornata da un alone di luce glorificante. Piuttosto controcorrente rispetto alle mode cinematografiche, d’accordo: ma il film importante di un regista che il tempo provvederà a risarcire.
Roberto Nepoti su La Repubblica
Manuale di melò, non manca nulla, gli attori soffrono (migliore Jeremy Renner, Phoenix e la lacrimante Cotillard) ma rimane tutto elegante, patinato ma senza pathos.
Maurizio Porro su Il Corriere della Sera
Gray ha cucito il film addosso alla divina Cotillard (Ewa). Attori eccellenti, regia elegante. Chi ama il classico apprezzerà, non poco.
Francesco Alò su Il Messaggero
Elegante e gelido dramma in costume attorno a una triste storia d’immigrazione (…) La malinconica Marion Cottilard batte un record: fa l’antico mestiere senza mostrare neppure una caviglia.
Massimo Bertarelli su Il Giornale
Sempre notevole tecnicamente, la regia di Gray questa volta fallisce nel trovare le sfumature giuste per dare a un copione non eccezionale il necessario spessore emotivo, riducendo il film a un drammone ponderoso, ripetitivo e piuttosto noioso le cui pietre angolari sembrano essere le scene studiate a puntino per far sgranare gli occhioni a Marion Cotillard, regalarle un monologo, far sfogare l’istrionismo dolente di Joaquin Phoenix.
Federico Gironi su comingsoon.it
Vengono a mancare gli aspetti più importante per un (melo)dramma: il coinvolgimento emotivo, la tensione narrativa, la profondità della caratterizzazione dei personaggi; viene a mancare insomma quell'anima che inevitabilmente differenzia un buon film da un capolavoro.
Luca Liguori su movieplayer.it
"C'era una volta a New York" (titolo originale più consono: "The Immigrant"), rivela una mano registica che ha saputo ben calibrare il concetto di classicismo, restituendo un cinema contemporaneo, nuovo, del tutto moderno.
Rosalinda Gaudiano su cinema4stelle.it
Immerso nella luce gialla e polverosa ricreata da Darius Khondji e accompagnato dalle noti dolenti di Chris Spelman, C’era una volta a New York non possiede però la forza espressiva dei precedenti lavori di Gray, imbrigliato da troppe suggestioni (immigrazione, prostituzione, artificio, sacro) e inibito da una sceneggiatura fiacca. Quel poco di calore lo si deve a Phoenix e alla Cotillard, vivi nonostante tutto. Liberi nella riconciliazione, prenderanno finalmente la propria strada. Lasciandosi dietro un solo rimpianto: il film.
Gianluca Arnone su cinematografo.it
Peccando forse di generosità o di mancanza di senso del limite, il melodramma di Gray nella seconda metà si fa eccessivo, quasi pomposo nella sua esasperazione. Ma ciò non diminuisce la bellezza di quello che vedrete sullo schermo, dalla passione e l'amore con cui viene dipinta la New York degli anni 20 alle consuete scene d'azione improvvisa cui questo giovane regista ci ha già abituato per la consueta maestria.
Giancarlo Usai su ondacinema.it
Alla fine però il film resta intrappolato nella sua volontà di mettere in scena un percorso di catarsi, una strada verso la purificazione di una donna, ma anche di un uomo che da vessatore diviene salvatore, e il tentativo di usare la classica forma del melodramma per arrivare a comunicare un messaggio di speranza si perde nel lento scorrere delle lacrime sul viso della sua protagonista.
Elena Bartoni su voto10.it
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